L’ULTIMA INTERVISTA DI CLAUDIO ARRAU

Dagli archivi de La Repubblica – 15 giugno 1991- ripubblichiamo l’ultima intervista al grande pianista Claudio Arrau.

 

L’ULTIMA INTERVISTA DI CLAUDIO ARRAU

di Jacques Drillon

 

Apparsa il 6 giugno 1991 sul “Nouvel Observateur” di Parigi. Arrau morì tre giorni dopo.

 

Claudio Arrau, 88 anni, cileno diventato tedesco, poi americano, uomo di cultura e di silenzio, è l’ultimo pianista superstite del vero XIX secolo, quello che si chiuse nel 1914. Gli si attribuisce la più bella sonorità del mondo: un impasto ricco, pesante e denso. Ha interpretato con uguale efficacia trecento anni di musica. È la memoria vivente di un’arte quasi unica: il pianoforte romantico.

Dove vive, oggi? Sempre a Long Island?

Sono stato sul punto di partire alla volta della Spagna, dove ho progettato di ritirarmi; ma non sono così sicuro di volermi veramente ritirare… Voglio senz’altro ridurre il numero dei concerti a vantaggio delle registrazioni: sono meno faticose e consentono di apportare tutte le correzioni che si desiderano.

Per molto tempo, lei si è rifiutato di diradare le sue esibizioni, sostenendo che un rallentamento dell’attività concertistica avrebbe inciso negativamente sul suo umore. Probabilmente lei è l’artista più attivo della storia. Un critico ha calcolato che nel 1960, negli Stati Uniti, lei diede diciassette recitals in ventidue giorni e suonò tutto Bach in dodici serate.

Sì, è vero. Recentemente, però, ho subìto diverse prove difficili nella mia vita personale: ho perso mia moglie ed è morto anche uno dei miei figli, e a causa di tutto questo sono caduto in una specie di spossatezza. Ho avuto il desiderio di allontanarmi… Ora, comunque, sto meglio. Lentamente, mi sento tornare in vita.

Come va la sua salute?

Benissimo! Come sempre! Mai un fastidio, non ho mai dovuto annullare un concerto a causa di una malattia… Per superstizione, ho qualche riluttanza a dire che, fin dalla mia prima infanzia, non sono mai stato malato; tuttavia, devo pur ammettere che è così, non crede?

Sua madre è morta in tardissima età: 99 anni, mi è stato detto.

Centoquattro, per l’ esattezza… L’ anziana signora aveva il vezzo di ringiovanirsi di qualche anno… Mia sorella è morta all’età di 96 anni e mia nonna a 120!Claudio Arrau

Spera forse che lo stesso avvenga per lei?

Non oserei…

A questo punto, lei si sente solo?

Sì. Insomma, direi piuttosto solitario.

Ha degli amici?

Mmh… sì… i miei allievi… e Mister Milton: è una specie di compagno e anche un allievo.

Ma lei non ha più veri e propri allievi; non è così?

No, non più. Ma i giovani talenti mi hanno sempre interessato e continuano a interessarmi. Mister Milton è molto dotato ma non ha mai lavorato molto!

Nel suo libro di interviste ‘Arrau parle’ (Gallimard), lei ha raccontato che il suo maestro Martin Krause, l’ultimo allievo di Liszt, aveva rispettato il suo talento naturale. Non è un po’ riduttivo?

Il nostro rapporto era meraviglioso; per me era una specie di padre: non avendo conosciuto il mio, non sapevo cosa significasse averne uno. Era forte e severo. Arrivavo da lui la mattina e me ne andavo la sera: mia madre abitava a due passi da lì. Krause rispettava la personalità dei suoi allievi. Quanto a me, avevo solo otto anni quando partii per Berlino ed ero già capace di stare correttamente al pianoforte, con naturalezza, come un gatto che dorme. In compenso, Krause mi insegnò a lasciare agire il peso del corpo, delle spalle, della schiena. Mi trovava mingherlino e mi faceva mangiare continuamente: cinque o sei pasti al giorno. Mi insegnò anche ad essere indipendente. In una certa epoca, ho fatto anche molta musica da camera. Ho persino avuto il mio trio, in Germania. Ho suonato spesso con Casals, Szigeti e ho imparato molto, soprattutto da Szigeti, nonché da quel violinista inglese, quello grosso, che mi piaceva tanto e di cui dimentico sempre il nome…

E dagli altri pianisti? Da Rachmaninov?

No.

Horowitz?

Oh, no!

Schnabel?

Forse un po’. Anche da Busoni ho imparato molto, ma in tenerissima età: venivo portato ai suoi concerti. Mi ha insegnato enormemente anche Teresa Carreño, la più grande pianista che io abbia mai sentito; una sonorità sublime, una potenza incredibile… Una donna fantastica! Aveva avuto quattro mariti ed era tutta muscoli, ma era molto bella, felice, raggiante. Lei era circondato da donne: sua madre, sua sorella, sua zia, e le figlie di Krause, quattro o cinque, se non ricordo male.

Ha la sensazione di essere stato indebolito da questo accerchiamento femminile?

Indebolito? Direi piuttosto addolcito. Mi hanno ingentilito. Sono diventato una persona buona, desiderosa di essere gradevole, di sedurre. Successivamente, questo mi ha giocato qualche brutto scherzo. Mi è stato difficile diventare uomo, imparare ad essere anche sgradevole.

Il giornalista Joseph Horowitz da cui è stato intervistato per il suo libro sostiene che lei ha difficoltà di rapporto con gli oggetti, con le macchine. È possibile per un virtuoso?

Non so cosa intenda dire. Se crede che io distrugga gli oggetti per gioco, come un bambino, si sbaglia: lo faccio solo involontariamente, senza alcuna intenzione malsana.

Poco fa, ha parlato della forza fisica della Carreño. È necessaria per suonare il pianoforte?

Oh, sì! Pensi a Gieseking! Certo, Clara Haskil non era forte ed era addirittura malata. Neppure Brailowski era molto forte. E non era neanche un grande pianista. Questo è vero! Con Chopin, che cimento! Il contrario di Alfred Cortot. Ricordo un concerto durante il quale Cortot aveva interpretato la ‘Ballata’ di Fauré: era incredibile. Accade una sola volta, nel corso d’una vita, di raggiungere vertici del genere, una tale qualità, una tale ispirazione, un tale suono!

Durante la sua adolescenza a Berlino sua madre era molto presente.

Mia madre e la musica formavano una sola e unica cosa. Era una madre molto intelligente, che non s’intrometteva mai tra me e il mondo, come spesso accade con i bambini prodigio. Aveva un incredibile senso di ciò che poteva e non poteva fare, di ciò che doveva e non doveva fare. Ha fatto tutto il possibile non per distruggere ma per proteggere il talento che riteneva vi fosse in me. Accettava perfettamente la presenza di Krause come guida.

Quando quest’ultimo morì, lei aveva 15 anClaudio Arrau ni. Cosa fece a quel punto sua madre?

Lasciò alla mia mente la libertà di svilupparsi.

Per lei, comunque, fu un trauma terribile. Si sentì bloccato, incapace di suonare, dovette persino intraprendere una terapia psicoanalitica con Abrahamsohn. Come reagì sua madre?

Condivideva il mio ricorso alla psicoanalisi. Per cinque anni ho attraversato una fase molto critica. Il mio problema era che, prima di suonare, sarebbe stato necessario avere il desiderio di suonare, soprattutto davanti a duemila persone. E un bambino non ha questo tipo di desiderio. Tutti gli interpreti dovrebbero sottoporsi a una psicoanalisi: il nostro è un mestiere che genera dei blocchi. Abrahamsohn ha svolto un ruolo importante nella sua vita.

Un giorno, per suonare a Washington, lei pose come condizione d’essere accompagnato da lui. Ed egli accettò di farlo…

Sì. All’ epoca, andare in analisi non era una consuetudine diffusa. E meno ancora confessabile. Andavo da Abrahamsohn quasi ogni giorno, e non mi chiese mai un soldo. Mia madre sapeva che la sua influenza su di me era positiva. Mamma era veramente una donna meravigliosa, il cui amore non era mai soffocante. Sa, era stata educata in una scuola francese. Parlava splendidamente la vostra lingua.

E il tedesco?

Nemmeno una parola. Vi si rifiutò sempre. Persino a Berlino, dove siamo rimasti dal 1911 al 1943. E questo le rendeva la vita più difficile: non poteva fare nulla da sola. Io a Berlino mi trovavo bene. Oggi, la Germania non ha più un pubblico realmente esperto. Vi sono troppi pianisti, troppi direttori d’orchestra e di ogni parte del mondo. Questa situazione è stata prodotta dal modo in cui oggi si insegna la musica: ci si preoccupa solo del successo e di quanto rende. Osservi l’affermazione dilagante dei pianisti russi, che sanno semplicemente suonare più velocemente e più forte degli altri. Le somme investite nella pubblicità appaiono oggi come una garanzia di talento. Ispirano fiducia. Una volta, al contrario, la pubblicità non era vista di buon occhio.

Ritiene che nella musica alcune cose scompaiano? Che lo stile di Horowitz sia morto insieme a lui?

Sì, lo penso. La prima volta che lo sentii, molti anni fa, era appena giunto a Berlino dalla Russia. Che impressione mi suscitò! Che temperamento vulcanico! Era veramente il più interessante di tutti, dal punto di vista dell’interpretazione della musica romantica. Mentre in seguito… Ecco un’altra vittima del commercio. Dovrei tacere: è morto.

E lei stesso si sente un romantico? Lei che è così fedele al testo!

Sì. Le due cose non si escludono. Oggi, sarebbe meglio essere un po’ più fedeli al testo, evidentemente, questo suscita pochi applausi e non accelera certo la carriera.

Claudio ArrauLei ha registrato tutte le sonate di Mozart; si tratta di un altro tipo di anti-virtuosismo?

Mozart è molto più profondo di quanto sembra. È necessario partire dalle sue opere, perché era innanzi tutto un uomo di teatro. Quando si interpretano i suoi concerti, ci si trova di fronte a due difficoltà supplementari: si deve trovare un direttore d’orchestra che parli lo stesso linguaggio ed è necessario molto tempo per provare. Ecco perché ho smesso di suonarli.

C’è pur sempre Giulini, o Kleiber…

Credo anche in Riccardo Muti benché sia ancora molto giovane e in Daniel Barenbom.

La sua registrazione delle ‘Variazioni Goldberg’ (RCA) è uscita soltanto nel momento in cui il pianista Baranboim ha pubblicato la propria: come mai è rimasta inedita per oltre quarant’anni?

A causa della Landowska, che all’epoca era molto celebre e aveva registrato quelle ‘Variazioni’ per la stessa casa. Al clavicembalo, naturalmente. L’uscita della mia interpretazione fu rinviata e poi dimenticata, molto semplicemente. Dovrei riprendere Bach. Lo sento meno severo di una volta. Lo stesso mi succede con le Sonate di Beethoven, che sto rileggendo in questo periodo. Sa, ci ho pensato per tutta la vita! Ora mi spingo più lontano di prima. Beethoven richiede una lunga, lunghissima riflessione; anche Schubert, con la sua musica così viennese, e che amo tanto! Quanto a Liszt, è meno profondo di loro, diciamo, ma ha una forza vitale talmente prodigiosa! In questi ultimi giorni, ho appena registrato un intero disco di musiche di Schubert. Vorrei interpretare anche Mendelssohn, un compositore magnifico e trascurato per ragioni idiote di puro e semplice antisemitismo. Farò anche gli studi di Debussy, e poi Haydn, un compositore appassionante. Credo di aver finalmente trovato lo stile che richiede. Ho ascoltato…

Glenn Gould?

Esattamente! Gould ha trovato la via giusta! Haydn si colloca tra Mozart e Beethoven, è così strano, così buffo, ha un humour così sano! È l’unico compositore capace di essere divertente. Insomma, divertente: non esageriamo. La musica non è fatta per far ridere la gente.

Come impiega il suo tempo?

Nella mia casa di New York: vado a dormire molto presto e mi alzo molto presto. Così, ho tempo per studiare e per leggere. Lavoro anche sulle opere che devo interpretare; talvolta mi capita di dover mettere in cantiere opere nuove.

Cosa sta leggendo in questo momento?

Sul suo tavolo vedo libri francesi, inglesi, tedeschi… Sto leggendo una biografia francese di Alessandro II, lo zar che liberò gli schiavi. Sto anche leggendo un libro sull’Unione Sovietica di Gorbaciov. Ho dimenticato di dirle che volevo registrare musiche di Schönberg; sono stato il primo a interpretarlo in concerto. La sua musica e la novità del suo mondo sonoro mi hanno sempre entusiasmato.

 

 

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